Per Elisa 

Condividi il pezzo!


Elisa è una tipa tosta, dicevano le poche amiche. Elisa è una figa, dicevano i tanti tordi che le sbavavano dietro. Elisa è una perdigiorno, ripetevano in continuazione i suoi genitori. Ma cosa o chi fosse Elisa davvero, in fondo non lo sapeva nessuno. Non lo sapeva neppure Elisa stessa, e forse stava proprio lì l’origine dei problemi. Esiste un termine che può approssimare una buona descrizione di questa ragazza: Elisa era un “fenomeno”, cioè una montagna di stronzate.

Perché Elisa non aveva dote alcuna, la sua personalità di paglia era stata programmata per plagiare le persone. Tutto in lei era falso come il trentuno di febbraio, di una falsità innata, bambinesca e incommensurabile. La sua stessa falsità era falsa (fatto questo che non la rendeva sincera, bensì un falsario ancora più abile).

Così la recita non doveva far altro che cedere il passo alla scena, la severa cascata di parole in corsivo alla paginetta illustrata. Perchè Elisa era appariscente, molto appariscente.

Usava portare i lunghi capelli mossi raccolti in una treccia e possedeva uno sguardo provocante capace di risucchiare la luce dalle pupille altrui. L’arma letale risiedeva nel suo corpo: di una sensualità e una femminilità supersonica, disponeva ed esponeva le curve sinusoidali al posto giusto e al momento giusto.
Elisa poi non era affatto una stupida, e questo costituiva un grosso problema. Per gli altri, si intende.  Studiava archeologia ed era una vegetariana dichiarata, ma dietro quell’aria ingenua, innocente e da secchiona nerd si propagava una furbizia degna della Sfinge tebana. E come una sfinge rompeva il cazzo a quei malcapitati che osavano passare dalla sua via, cioè dalla sua vita. Non c’era un solo Edipo ambizioso che non fosse uscito mezzo masticato oppure cotto a puntino da una storia con lei, pensate a coloro che avevano dovuto o osato viverci insieme. In tutta quell’ambiguità, in tutta quella artificiosa vaghezza, si aggirava uno schema ben preciso e letale, composto di ben due momenti. Il primo era la curiosità di cui si vestiva. Lei era la ragazza più particolare e curiosa contro cui si potesse sbattere il naso, quella che faceva le cose più ganze, ascoltava i gruppi più fighi, frequentava la gente più cool. Lei era quella piena di principi e che non sprecava tempo sui social: li usava “soltanto” per sbandierare la sua virtù di non sprecare tempo sui social. Lei era quella emancipata che non aveva limiti affettivi ed era nomade come una tribù di mongoli, quella che non si poneva scrupoli a rimandare un appuntamento all’ultimo sacrosanto nano-secondo con la motivazione, sì sempre quella, che il mondo non la capiva. Ganzo no?

Forse sarebbe stato più ganzo vederla appena sveglia, a mezzogiorno e con le occhiaie gonfie, perdere l’autobus che la portava all’after party di un corso-settario-per-il-potenziamento-della- memoria.
Il secondo momento seguiva necessariamente al primo e costituiva il vero colpo di frusta dell’incidente ed era il fatidico momento del sesso mancato. Come funzionava? Continue allusioni, ammiccamenti, elogi, parole sul filo del rasoio, vestitini e situazioni provocanti. E poi quando si arrivava al dunque, Elisa fuggiva via, cioè andava praticare del sesso mancato con qualcun altro. Ora se questo comportamento costituisse un problema di microeconomia sull’equilibrio del consumatore, la risposta sarebbe banale, anche perché ogni risposta segue ad un assioma sulla razionalità degli individui. Ma di razionale nell’uomo di tutti i giorni c’è ben poco. Anche nella donna eh, bisogna specificare che con Elisa potevano cascarci anche loro (sarebbe quasi un errore considerare Elisa una donna, cioè un esemplare femminile di homo sapiens. Sarebbe piuttosto una precisazione considerarla una femmina di canis latrans).

Quanti poetastri e pittori squattrinati rimanevano sospesi in questo limbo, stregati da un mito romantico in salsa pop e inscenato in maniera patetica: non avevano occhi che per lei, non avevano orecchie che per le sue promesse, non c’era gioia che per i suoi fulminei quanto inutili ritorni. E intanto lei si divertiva, ma di brutto. Forse non aveva fini ma sfiniva cervelli. E si sarebbe detto che dal quel punto di vista la sua vita “sentimentale” assomigliasse a un termitaio: da lontano una costruzione rigida e solida, da vicino un via vai continuo, una circonvallazione intricata che ruotava attorno alla Regina rosicchialegni.
L’atto finale, la calata del sipario o la conferma delle aspettative poteva arrivare anche per te, povero malcapitato, quando le stelle si allineavano o si avvicinava la pensione. Insomma quando finalmente te la deva potevi sentirti un eroe, ma eri eroico quanto quell’escremento seccato in fondo alla tazza del cesso che aveva resistito interperrito agli innumerevoli tentativi di scarico.

La tua interiorità era stata smontata mattoncino per mattoncino e smistata per colori e forme nei diversi set da costruzione: era rimasto un pezzo nel box “Retata al centro sociale”, un paio nell’ “avventura degli orti indipendenti”, e qualcosina nel “Mistero delle librerie-caffè”.

Come Toro Seduto dopo Little Big Horn non ti restava altro che dire: “Aug guerrieri, abbiamo vinto una battaglia ma perso la guerra”.
Fortuna che anche i peggiori possono sbagliare e sì, anche Elisa un giorno sbagliò, e fu anche peggio quando se ne rese conto. C’era un belloccio, il suo tipo avrebbe detto lei, che sedeva con la schiena al muro mentre sorseggiava un long-island, un concentrato di deodorante e tatuaggi con una barba titanica degna di un bifolco canadese. Elisa lo aveva puntato dall’inizio dell’aperitivo, doveva essere suo. Per un pò fu convinta che la stesse fissando quando in realtà il tipo aveva gli occhi solo per la pubblicità della Proraso trasmessa sullo schermo dietro al bancone. La ragazza decise di farsi avanti e con un movimento assassino raccattò una scusa banalissima per attaccare bottone. La conversazione che nacque tra i due, di un innaturalezza innaturale, era splendida da assistere: poteva essere la conversazione della macchinetta del caffè con la macchinetta delle merendine, lei gli citava Baudelaire e lui gli chiedeva quanto avesse fatto il Sassuolo. Non ci mise molto Elisa a capire che aveva a che fare con un vero osso duro, con una superficie talmente piatta e liscia che era capace di schermare tutti i suoi tentativi di manipolazione. Al tipo gliene fregava zero di lei, e l’apice si ebbe quando la piantò in asso con la scusa di non potersi davvero perdere la versione restaurata del Nosferatu. Lei prima rimase di pietra, perse ogni colore e poi, lentamente, cominciò a sgonfiarsi come un pallone, liberando la polvere del deserto che si era depositata troppo a lungo dentro quel corpo vorace.

Fu lo stesso giorno in cui avvertì per la prima volta se stessa che Elisa si volatilizzò.

Condividi il pezzo!

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *