Nelle profondità immobili di un silenzio assoluto si nasconde una musica. Anzi, la musica. Questo è quello che sembra suggerire il finale di Sound of Metal. Un film che inizia a parlare di metallari, ma finisce per rappresentare una perdita, un lutto, e il lavoro necessario per accettarlo.
A morire è uno dei cinque sensi, il più caro del protagonista: l’udito. Per gran parte del film sentiamo quello che sente lui, e cioè ben poco, un mondo ridotto e ovattato.
La musica però non se ne va via, e viene restituita grazie alla postura delicata del racconto. Rimangono tutti i suoi segni, come il tour e il furgone-sala-prove. Quando scompaiono anche quelli, si rivela nelle sue assenze, per sottrazione, per la rabbia sorda di chi ne è privato.
Rinasce quando sembra impossibile. E sostanzia i momenti di una nuova socialità: la scena dello scivolo sembra dire questo. Dove non arriva più l’udito compensa la vista, dove arretra la parola detta avanza il linguaggio dei segni, il contatto con la carta e la parola scritta. Un nuovo mondo che muove dal silenzio e dalla ripetitività dei gesti.
Come suggerisce Sound of Metal, forse alla fine la musica non ha nulla a che fare con i suoni, ma con noi stessi.
Come forma libera, che esiste perché vogliamo coltivarla.
Come libertà.
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