Il finale di Bojack Horseman

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Due amici guardano il cielo in silenzio. Uno dei due è un cavallo. Che cosa significa essere umani? No, il finale di Bojack Horseman non lo spiega: ci ha già provato per sei stagioni.

Ed è stato un ottimo tentativo. Sicuramente era necessario un mondo di animali sconquassati per avere un punto di vista migliore.

C’è una tonnellata di esistenzialismo che ribatte sulla domanda, Kierkegaard, i romanzi di Kafka, le avventure di Bukowski e gli USA di David Foster Wallace.

Poi arriva un lavoro di animazione coloratissimo incentrato su un cavallo alcolista a Hollywoo (senza la D), che sembra buono solo per strapparci qualche risata, e invece continua a martellare proprio su quell’interrogativo.

Da una parte Bojack rompe la serie animata d’intrattenimento, usa quel format per trasmettere messaggi che non sono passano abitualmente da lì.

Dall’altra utilizza una forma di narrazione ben rodata, incentrata cioè su una serie di personaggi a tutto tondo, che piangono ridono, soffrono amano e odiano nella stessa puntata. Difficile non avere un uragano interiore mentre si segue l’episodio sottomarino, o quello del monologo al funerale, giusto per ricordarne un paio.

Sono questi i segreti del successo?

Un pensiero un po’ cattivello, ma necessario, mi ha suggerito che il finale di Bojack Horseman possa essere una sorta di specchio per chi si crede profondo e vuole essere triste.

Può darsi: in tal caso, ottimo lavoro comunicativo da parte creatori. Però, forse c’è anche dell’altro: che in fondo siamo ancora tremendamente interessati ai rapporti umani, e a quelle sfumature profonde e dissonanti che sono capaci di provocare.


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