Chemical Brothers – Born in Echoes

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I fratelli chimici 2.0. Mancavano ormai soltanto loro all’appello release tra i mostri sacri dell’elettronica anni novanta e l’intensità di tale attesa (cinque anni dal loro ultimo lavoro in studio, “Further”) è stata indubbiamente vigorosa. Ma come c’era da aspettarsi, l’interrogativo che infiamma il web sembra piuttosto incentrato su quale tipologia di Chemical Brothers siano quelli di “Born in the Echoes”: il duo è riuscito a riconfermarsi oppure è uscito compromesso e snaturato? Ha saputo recuperare l’eredità di una musica che da nicchia è diventata canone, anche grazie alla loro attività, oppure ha proposto un prodotto che si perde nell’assai generica definizione di I.D.M.? Quante, quante chiacchiere: per una volta cerchiamo di calarci in una sana prospettiva di astrazione e godiamoci questa ultima release, perché anticipo da subito che questo è un lavoro più che valido di per sé.

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Si schiaccia l’acceleratore in partenza su “Sometimes i Feel so Deserted”, una traccia di un’ossessività letale dove tutto è inserito appositamente per farci muovere e perdere nel groove: semplici elementi, due riff di synth arrugginiti che si incastrano, una cassa in quattro, qualche vocals in agguato e un attacco filtrato che arriva esattamente dove deve arrivare. Semplice ma funziona alla meraviglia. Stessa identica formula per “Go”, traccia però arricchita dalle rime del rapper Q-tip che riescono a traghettare la cupezza della strofa in un fragoroso e vivace chorus anni ’80. La psichedelia fa capolino con “Under Neon Lights” tra voci inquietanti e campioni malmenati mentre “Ritual” è il martello da rave degno appunto di un rituale bacchico in chiave moderna: “I know what to do, i go to lose my mind”. Anche qui una cassa diritta e un basso acido producono un effetto ipnotico, interrotto bruscamente solo nella sezione finale del pezzo (molto Prodigy!).

“I see you there” assomiglia più ad un esercizio di sperimentazione che ad una traccia vera e propria, mischiando break di ritmiche e un tiro rock ad incursioni di strumenti etnici. “Just Bang” è un muscoloso big-beat da club che, inutile dirlo, ti mantiene avvolto nel ritmo come un misero insetto nella tela di un ragno; sulla stessa linea d’onda si sviluppa anche “Reflections”, anche se nella sua deriva profondamente house può risultare un po’ stucchevole. Sinistra e lisergica, “Taste of Honey” è la testimonianza del potenziale creativo (e distruttivo) dei Chems, mentre la title track “Born In The Echoes” preferisce mantenere il piglio spedito della prima parte del lavoro. La cattiveria si dilegua su “Radiate”, pezzo che sembra svelarsi in un tenue crescendo e che pompa emozioni grazie ad una melodia malinconica suonata da diversi strumenti. E’ invece un finale decisamente radiofonico quello di “Wide Open”: suoni e chitarre dal gusto retrò, un cantato che oscilla tra l’alternative rock e i Gorillaz, una struttura che sembra lasciarsi e riprendersi ma che in realtà mantiene lo stesso disegno ritmico dall’inizio alla fine. Cinque minuti che assomigliano a cinque secondi. Masterpiece.

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Le parole chiave di questo disco sono semplicità ed efficienza. Semplicità che non vuol dire banalità, o ancora peggio, facilità (di composizione ed esecuzione) ma significa leggerezza di strutture e capacità di assemblare tracce iper-funzionanti con pochi elementi ripetuti all’inverosimile: i Chems sono dei maestri nel tenere un suono ripetuto per diverse manciate di minuti senza annoiare. E stupisce che questa caratteristica non sia rivolta esclusivamente ad una destinazione da dancefloor, ma che sia anche funzionale per l’ascolto (si entra nel groove prima con la testa e poi con tutto il corpo).

Semplicità che non esclude poi aperture a sperimentazioni sonore e a contaminazioni con altri generi e frange musicali. E poi vabbè, qui di certo non mancano quelle sonorità taglienti, corroboranti, acide, industriali che tutti ci aspettiamo. Potrete dire che fin qui non c’è nulla di nuovo. E menomale. Perché i veri artisti sono quelli che sanno rimanere se stessi anche sporcandosi le mani con il tempo che passa.

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