Lo scorso venerdì siamo usciti a fare due passi in città. Un’oretta o poco più, verso l’insegna gialloblu dell’Eurospin. Se non fosse che c’era il fiume, qui in città. Ieri sera il Bisenzio ha lasciato le sue suole fangose un po’ dove è capitato. Ed è proprio dai piedi che bisogna partire per affrontare l’alluvione a Campi. Dai gambali e gli stivali, che immediatamente innalzano i campigiani e chi li indossa al rango di generali napoleonici, strateghi in battaglia contro il fango della piena.

Per uscire la mia ragazza ha scelto delle vecchie scarpe da ginnastica, leggere e sacrificabili. Io ho preferito indossare scarponi da montagna, perché mi piace l’idea di una scampagnata consumata lungo il tragitto soporifero per arrivare alla campana del vetro.
Via via che ci avviciniamo al Centro di Campi, l’alluvione si fa avanti, l’asfalto si fa rugoso e picchiettato di terra. I lati della “strada” cominciano ad assumere una consistenza nitida: escono dalle geometrie, dall’astrazione, e diventano quei luoghi dove va ad accumularsi lo sporco.
Trappole marce da evitare.
L’uso del marciapiede, da lineare e statico, si trasforma in un gommoso slittare da una parte all’altra della carreggiata. Quasi un gioco infantile della campana, per evitare i tombini e le grate delle fogne divelte. Anche le auto e gli autisti procedono a passo d’uomo.
Passeggiano.
Sul ponte della rocca notiamo dove il Bisenzio ha alzato il capo: quattro dita sudice, quattro tizzoni spenti imbrattano adesso il parapetto del ponte. Da lì in poi incontriamo diverse persone, e sembrano tutte quante incredule di potersi muovere con i propri piedi. Come se non fossero a Campi Bisenzio, in provincia di Firenze, ma sulla Luna. È cambiato il paesaggio in una notte. C’è un umido odore di argilla nell’aria, e le strade risuonano di sussurri. Anche i ragazzetti in banda sussurrano, un po’ per il frastuono dei mezzi della Protezione Civile in perenne manovra.
La città è un sussurro che evita l’ovvio e sorregge la sorpresa sulle proprie gambe.

Ricomincia a piovere.
Ogni tanto una di queste persone dai vestiti imbrattati ci supera, a passo sicuro, pala sulla spalla. Ha levato via il grosso e ci permette di camminare. Ora si sposterà da un’altra parte, o ricomincerà domani. In certe vie secondarie, silenziose, con le auto ferme come se le avessero incollate in un plastico, altre persone fanno fatica a farsi strada. Ogni falcata un rischio di cadere.
Una piccola coda indica che siamo arrivati all’Eurospin. Possiamo recuperare la macchina e tornare a casa (non senza prima fermarci a prender qualche schifezza con cui riempire il frigo).
Grazie ad un mezzo sotto il culo possiamo spingerci verso la piana di Sesto. Ma le sirene di un’ambulanza ci bloccano poco oltre.
È calata la sera, e sta piovendo più forte. Però si vede chiaramente, e fa paura vederlo, il profilo della città in cui vivo – un cassonetto, e più in fondo un semaforo spento e qualche lampione – specchiarsi in una pozza.
Una pozza lunga più di un chilometro.
I fari della nostra auto sono puntati fermi in quella direzione. E anche se vediamo, cominciamo a capire la situazione, non riusciamo a vederne la fine di questa alluvione a Campi. I fari illuminano anche i tre volontari al lavoro. Sono stanchi sotto la cerata, i loro movimenti lenti. Ci danno le spalle, presi a gestire una pompa.
I piedi che pestano nel bagnato.
Non si riesce a vedere la fine da qui. Allora ci guardiamo, e ci viene in mente che sì, un fiume in piena quando arriva si affronta con i piedi saldi e ben protetti. Ma se è un’intera comunità ad essere travolta, allora, servirà iniziare ad usare soprattutto le mani.

Leggi anche:




