Errasmus: un viaggio in Europa ai tempi del Covid-19 // Parte I

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Il 2020 è stato un anno difficile per tutti. Ognuno porta con sé la sua esperienza, le cicatrici di quel periodo. Di recente ho letto un articolo su «Internazionale», scritto da Casper Thomas, un giornalista olandese. Il pezzo parla dell’eredità del Covid-19, ripercorrendo i momenti iniziali, la stasi del lockdown e quello che è rimasto nella nostra società. Mi ha ricordato un reportage che ho scritto in quel periodo. Cinque anni fa, nella primavera del 2020, ho affrontato un viaggio molto, molto strano. Mentre in Italia accadeva il disastro, io ero rimasto bloccato nella mia sede Erasmus a Groningen, nei Paesi Bassi. I governi di tutte le nazioni del mondo inviavano aerei per permettere il rientro in sicurezza degli studenti. La Farnesina inviava agli studenti italiani una pagina web ricca di informazioni: scoprivamo ad esempio che in Africa c’è il Colera, e che l’unico volo utile per tornare in Italia era a Parigi. Ma i treni saltavano, i confini si chiudevano. Arrivare a Parigi era fuori discussione. Un mese e mezzo dopo, la rotta si è aggiornata: Belgio, aeroporto di Bruxelles. Era arrivato il momento di tornare a casa. Bisognava solo attraversare il cuore di un Europa congelata dalla pandemia

Un viaggio in Europa ai tempi del Covid-19 // Parte I

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Sono le 9.28, il treno stacca e prende velocità, il campanile della Chiesa di San Martino viene inghiottito dai portici della stazione. Groningen è alle mie spalle. 

Giusto un attimo, un attimo solo, per realizzare che questa esperienza è finita.

Quello che inizia adesso invece è un viaggio. Ne ho uno dai contorni indefiniti davanti, e scorre sui binari che attraversano la campagna olandese nella foschia domenicale. Anzi, ce ne sono due di viaggi a dire la verità. 

Ma ogni cosa a suo tempo.

Adesso attraverso una campagna fatta di campi arati e pascoli. Due cavalli sono inginocchiati uno di fianco all’altro, come statue di cera. Duri e scuri i solchi nella terra, tra l’arancio e il giallo spento i tetti delle case e delle fattorie. 

Indosso la mascherina da circa mezz’ora. Setosa, fastidiosa, presa da un kit sanitario del governo rumeno che una compagna ha distribuito nel dormitorio. Non l’avevo mai indossata così a lungo, sento il respiro impostarsi e diventare pesante. È come la meditazione, ma al contrario: invece di concentrare tutte le funzioni vitali nel respiro, contemplo il fatto meraviglioso che non sto soffocando. 

Nessuno la indossava a Groningen.

Ad Assen il treno fa una sosta brevissima. Prati, fontane e rimesse di legno che sembrano modellini da collezionismo fuggono via. Qualche corridore calvo della domenica scatta sulla pista ciclabile. Ancora campi e alberi, e un lungo fosso melmoso che corre al lato della ferrovia. 

All’andata, di notte, queste zone erano inghiottite dal buio, non era possibile distinguere niente. Soltanto adesso un bizzarro sole olandese fa luce su terreni dai contorni così netti e contrastati da sembrare finti, ricostruzioni filo d’erba per filo d’erba degne di un videogame iperrealistico. 

Un assembramento di mucche gode di questo breve tepore, ed altri animali, centinaia di pomelli neri, popolano il prato: sono i corvi nella loro mise elegantemente lugubre. Sull’orizzonte svetta un’orrenda ciminiera. 

La fermata successiva è preceduta da cumuli di sabbia e ghiaia, le poche persone che salgono sono veloci e silenziose come ombre. C’è una strada che entra in un bosco al lato di un incrocio, chissà dove porta.

Dopo più di mezz’ora che ho lasciato la città, la mente si è già abituata al liquefarsi delle immagini, e stacca dagli eventi degli ultimi tre mesi, li lascia scivolare via come il paesaggio che scorre davanti agli occhi. Tutto si fa impastato e zuccherino, come la coppia di ciclisti anziani che pedala verso un maneggio tenendosi uniti per i mignoli. 

Devo lottare contro le oscillazioni del treno per non prendere sonno, e continuare a registrare queste impressioni sul mio taccuino. 

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Ho dormito un’ora stanotte perché ho voluto passare più tempo possibile insieme alle persone con cui ho vissuto in questi mesi. Ho voluto stare vicino a loro, come le fronde del glicine e i salici piangenti che ora sembrano accarezzare la ferrovia. Non mi pento della stanchezza che ho. È stato un dovere tutto sommato dolce restare ieri sera con i miei compagni finché ne ho avuto la possibilità. 

Cominciamo a rallentare, siamo a Zwolle e qui devo fare un cambio per Amsterdam in pochi minuti.

Il treno fa un’ultima fermata stridula, ma le porte non si aprono. Busso. Picchio. Forza! Il binario otto? Fuori ci sono diversi treni fermi. Appena scatta la serratura pressurizzata mi  precipito giù per le scale del sottopasso, sbatacchiando sui gradini un bagaglio da ventitré chili e uno da otto. Lo zaino mi taglia la schiena. Arrivato alla pensilina della stazione, realizzo con orrore che il binario otto è proprio dall’altra parte. 

Qui non funziona come in Italia, i treni arrivano e partono con una precisione affilata. Ma dato che siamo in piena pandemia, le corse possono essere cancellate all’improvviso. Le coincidenze saltano. E il rischio di rimanere bloccato in questo pantano pianeggiante diventa fottutamente reale.

Di nuovo giù, via, sorry sorry, dita dei piedi schiacciate dalle valigie. Una voce incomprensibile gracchia qualcosa negli altoparlanti. Le scritte nei pannelli vorticano minacciose.

Scorgo il vagone blu tutto specchi. Lancio le mie cose nell’ultimo varco aperto, le porte si chiudono alle mie spalle. Per un pelo!

Mi butto a scoppio sul primo sedile libero, senza nemmeno controllare se il posto corrisponde a quello assegnato sul biglietto. Le pale eoliche nel paesaggio che scorre via veloce fanno un movimento ipnotico, e il sonno mi spegne. 

Una sensazione di gretta pesantezza comincia a montarmi dentro la gola: non è la mascherina, a cui ormai sono abituato, ma la sete. La sete mi sveglia e devo placarla con un sorso d’acqua dalla borraccia. Qualcuno tossisce nei sedili posteriori. Nuvole basse come zucchero filato pendono dal cielo.

Il mondo fuori comincia a riprendere una forma. Ma è quella della noia. Allora mi ritiro nei pensieri, e comincio a rimetterli in ordine.

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Questa cosa chiamata Erasmus, che ho voluto fare prima di finire gli studi, fuori tempo massimo, ma che rifarei da capo, istante per istante, persino in questo marasma che attraversa l’Europa e il mondo intero. 

Persone piovute nel quotidiano da un buco della soffitta del caso. Nomi e volti che erano stranieri, e che non torneranno mai più ad essere così. È successo tutto quello che ti raccontano finché non ci vai a studiare fuori. Legami tirati su in fretta e furia come palazzine nei quartieri del dopoguerra.

Dopo innumerevoli fossi, attraversiamo un fiume. Un paio di ponti di legno, e poi una landa spoglia di alberi, guarnita di erba ingiallita, punteggiata di tronchi spezzati. In breve, la landa si riempie: sono centinaia di cavalli, piccoli cavalli dal manto di cenere. 

La statura di questi cavalli mi colpisce. 

Se dovessi descrivere questo paese con due parole, direi: statura e pianura. Qui le persone hanno rubato l’altezza alle alture, che non esistono.

Mancano cinquanta minuti alla Stazione Centrale. I grandi larici si fanno più radi e gli spazi si restringono. Un vicinato di casette in legno strette e colorate circonda la ferrovia: è la periferia di Amsterdam, una baraccopoli per individui facoltosi. Siamo appena passati oltre il camposanto più frugale dei Paesi Bassi, le lapidi sono tronchi d’alberi senza nome. Avrà sicuramente un significato che l’avanzata inarrestabile del treno mi impedisce di decifrare. 

Il treno si ferma al Parco della Scienza. Campi da calcio curati al filo d’erba si specchiano negli edifici vetrati. 

Arrivato alla stazione Centrale, aiuto una signora grande e grossa e dalla faccia rubizza a far scendere dal treno la carrozzella con il suo bambino sopra. Il suo faccino spelacchiato mi fissa stupito e in silenzio, come pietrificato dalla paura. “Dankevein, you are very kind”, dice la signora. 

Rimango sullo stesso treno, direzione Lelylaan. 

Là dovrebbe esserci Marika ad aspettarmi, un’amica di Pesaro che non vedo da qualche anno. Tiro un sospiro. 

Un viaggio, una tappa, si è appena conclusa. Un’altra sta per iniziare.

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