Errasmus: un viaggio in Europa ai tempi del Covid-19 // Parte II

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Di recente ho letto un articolo su «Internazionale», scritto da Casper Thomas, un giornalista olandese. Il pezzo parla dell’eredità del Covid-19, ripercorrendo i momenti iniziali, la stasi del lockdown e quello che è rimasto nella nostra società. Mi ha ricordato un reportage che ho scritto in quel periodo. Cinque anni fa, nella primavera del 2020, ho affrontato un viaggio molto, molto strano durante la pandemia. Mentre in Italia accadeva il disastro, io ero rimasto bloccato nella mia sede Erasmus a Groningen, nei Paesi Bassi. I governi di tutte le nazioni del mondo inviavano aerei per permettere il rientro in sicurezza degli studenti. La Farnesina inviava agli studenti italiani una pagina web ricca di informazioni: scoprivamo ad esempio che in Africa c’è il Colera, e che l’unico volo utile per tornare in Italia era a Parigi. Ma i treni saltavano, i confini si chiudevano. Arrivare a Parigi era fuori discussione. Un mese e mezzo dopo, la rotta si è aggiornata: Belgio, aeroporto di Bruxelles. Era arrivato il momento di tornare a casa. Bisognava solo attraversare il cuore di un Europa congelata dalla pandemia

Un viaggio in Europa ai tempi del Covid-19 // Parte II

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Arrivato ad Amsterdam, Marika mi aiuta con i bagagli, e fatti due passi arriviamo a casa sua. O meglio, in casa di Taher, il proprietario che le ha affittato una stanza. 

Taher ci accoglie nella sua casa. Vive in un piccolo appartamento: cucinotto, toilette, bagno e salotto. Quando entriamo ci fa togliere le scarpe. Taher ha sessantadue anni, viene da Alessandra d’Egitto, e per trent’anni ha lavorato nella ristorazione. 

Vengo a scoprire che ha sofferto di depressione, e che, pur di avere compagnia, oltre che affittare fa anche il couchsurfing. Guai ad intervenire o a commentare quello che dice: lui va avanti a parlare senza sosta, e non fa pause.

Si lamenta della gente che continua ad uscire in strada, e dell’economia che sta colando a picco. Nel salotto sono appese alcune frasi del corano e un busto della regina Nefertiti. 

“Tu sei un edificio”, mi dice in inglese, “non puoi costruire qualcosa di buono se le fondamenta sono marce. Mangiare sano, vita tranquilla, andare a letto presto. Questo è il segreto”.

Quando io e Marika ci prepariamo ad uscire, si distende nel suo letto in salotto, fissa lo schermo del portatile con uno sguardo perso nel vuoto, e una sigaretta magra che gli spiove dalla bocca. Rannicchiato nel suo lettuccio sembra un’ autorità nordafricana tenuta rinchiusa in una cella da un regime ingiusto. 

Come l’abbiamo lasciato così lo ritroviamo qualche ora dopo.

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Ad Amsterdam sembra che voglia piovere da un momento all’altro. È l’ultimo momento da turista a disposizione in questo viaggio, cerco di godermelo al meglio, anche se con Marika non facciamo altro che parlare della situazione in Italia e soprattutto, del viaggio che ci aspetta domani. 

Per sicurezza ci fermiamo a stampare i biglietti ad un Internet Café su strada. 

“Ma davvero esistono ancora gli Internet café? Chi ci va?” chiedo a Marika con quella naturalezza che si ha quando si è convinti che nessuno ti possa capire. 

“Ragazzi, come posso aiutarvi?”, ci domanda il commesso in un italiano migliore del nostro. Pollicione su.

Usciamo dal negozio, camminiamo ottocento metri e siamo dentro Rembrant Park, poi Vondelpark. Il parco è pieno di persone. “Queste erano tutte ambasciate”, fa lei indicando oltre un laghetto. “Poi si sono trasferite all’Aja, e gli edifici li hanno venduti a privati. Tu se potessi quale ti prenderesti?”. Il tetto  aguzzo di una torretta spunta tra gli alberi. Indico quella. “Ottima scelta”.

Ci stendiamo con un telo sul prato, per godersi un po’ di tranquillità, ma qui è difficile. Prima siamo assaliti dalle anatre, e dobbiamo accettare una convivenza pacifica: ci vuole un po’ prima che gli animali si arrendano e capiscano che non abbiamo cibo con noi. 

Un tizio bizzarro viene verso di noi per proporci uno spettacolino: parla con un tono gentile, ha un volto ossuto e il pizzetto appuntito, indossa un completo e una cravatta viola alla Willy Wonka. Non avrà neanche trent’anni. 

Accettiamo di essere il suo pubblico. Ci chiede quale barzelletta preferiamo sentire: “Beh, questo con le stand-up di Netflix non lo puoi proprio fare”, ci diciamo.

“Ne volete una sporca o una davvero, davvero cattiva?”, ci chiede lui.

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Optiamo per quella cattiva. La barzelletta in questione unisce due elementi: un episodio di coming out finito male e Anna Frank. 

Gli lasciamo qualche euro, lui ci ringrazia, si rolla una sigaretta e se ne va. L’umidità ci ha conquistato, e cominciamo a rimetterci in cammino anche noi. Alle sette di sera raggiungiamo gli anelli della città. Eccetto chi sfreccia in bici o sgassa con il motorino, non c’è veramente un’anima a giro. Le vie, i canali, completamente deserti.

Nonostante la città svuotata, al ritorno l’app di Marika le dice che abbiamo camminato diciotto chilometri. Taher per cena ha preparato pollo speziato e involtini nella foglia di vite. 

È il ramadan, e la tradizione impone di offrire la migliore ospitalità a chi è di passaggio.  Ceniamo a luci basse, come se fosse la sera di Natale, come se ci trovassimo ogni anno in casa di Taher per celebrare questo momento.

La mattina dopo ci svegliamo presto per partire in tempo.

La partenza è stranamente priva di nervosismo. Indossiamo la mascherina e non ce la togliamo praticamente più fino a quando siamo arrivati a destinazione. Il cambio a Rotterdam è un gioco da ragazzi, adesso siamo in Belgio e manca solo l’ultimo treno per l’aeroporto. 

Ad Anversa troviamo la stazione completamente al buio. Alcuni binari danno l’idea di essere scomodi ripostigli pieni di polvere, abbandonati a loro stessi.

Sul tabellone non troviamo il nostro treno, e cerchiamo qualcuno per chiedere informazioni. Troviamo una squadra di poliziotti. Stanno in gruppo e si spalleggiano, dopo un paio di parole scambiate in diffidenza, ci indicano il treno giusto. 

Tra meno di dieci minuti dovrebbe partire. Ci precipitiamo. 

Giusto il tempo di salire, e realizziamo che i vagoni sono completamente al buio. I sedili vuoti. Anche il display sulla pensilina non dà segni di vita. Partiamo? Le indicazioni sono sbagliate? Non siamo gli unici in balia dell’incertezza. Insieme a noi ci sono altre tre persone ad aspettare. 

Chiedo ad un’altra ragazza, anche lei con diversi bagagli al seguito. “It should be…I hope so…”. 

Insomma, nessuno sa niente. 

Andiamo a zonzo per un po’, finché un tizio, in cima al binario, mi si avvicina da dietro. Sono convinto che sta sorridendo sotto la mascherina. È il capotreno. La direzione, conferma, è quella giusta. Il treno finalmente può partire. Tiriamo un sospiro di sollievo.

All’aeroporto di Bruxelles-Zaventem regna un silenzio spettrale, nessuno fa un suono o un passo di troppo. Chi parla lo fa sottovoce. 

Tutti i servizi dell’aeroporto sono ridotti all’unità: un solo ascensore, un solo bagno. Una sola fila di persone, avvolte da foulard rossi, gialli e verdi, quella per un volo verso Tunisi. La maggior parte dei gate sono chiusi. I militari pattugliano l’area facendo una ronda simbolica, un rito religioso all’altare di Marte. Non indossano la mascherina, ma tengono una bandana mimetica stretta sulla bocca. 

Un giornalista belga si aggira con la troupe per l’aeroporto, e ci ferma per fare qualche domanda. “Da dove venite? Com’è stato il viaggio? Che volo pensate vi aspetterà?”. 

Sono contento di raccontargli qualcosa. Rispondendo alle sue domande torna viva l’emozione di essere ancora fuori casa e poter conversare in un’altra lingua, l’illusione di essere ancora liberamente a giro per l’Europa in una tappa dell’esistenza.

La procedura d’imbarco è estenuante. Non c’è nessuno davanti a noi, ma è come se ad ogni passaggio fosse rallentato da una pesantezza e uno stordimento millenario.  Prendiamo al volo un caffè da Starbuck per riprendere lucidità. Per un momentaneo scollegamento delle sinapsi, lasciamo lì tutto quanto.

Il portafoglio. La carta d’identità. Marika, il suo giubbotto.

Arrivati ai controlli sotto il metal detector abbiamo una terribile rivelazione. Non c’è verso, adesso resteremo per sempre Zaventem. Ad infestare l’aeroporto, come due spettri della pandemia.

“Sei tu Guido?”. 

È la barista a chiamarmi per nome, facendomi gelare il sangue, anche perché pronuncia il mio nome perfettamente, neanche fosse che so, mia zia. 

“E adesso che è successo…”. 

Ci ha portato fin lì quello che avevamo perso. Ringraziamo in più lingue e con diversi tipi di inchini. 

Finalmente troviamo una vera fila di persone. Una fila di italiani, che si guardano intorno con aria confusa. Chi prega, chi bestemmia, chi già si pente di essere arrivato fin qui. Presto capiamo perché. 

Misurano la temperatura.

“Ma che me rimandano indietro, proprio ora?” fa un ragazzo romano con i jeans che gli arrivano alle ginocchia. Viene rispedito in fondo alla fila, scortato da due militari, e di lui non sappiamo più niente. 

Ecco, ci siamo. Mi puntano la pistola-termometro sul lobo frontale. Chiudo gli occhi. Nel buio di un istante scorrono veloci le immagini dei vietcong che ridono e schiaffeggiano i prigionieri, sono seduto a fare la roulette russa nel film il Cacciatore.

E adesso è il mio turno.

“Lei è a posto. Può andare”. 

Poco dopo fanno passare anche Marika. Non sappiamo cosa dirci, non possiamo dire niente, sbattiamo solo le palpebre per lasciare andare uno sfarfallio di tic nervosi. 

Sull’aereo sediamo distanziati. È obbligatorio lasciare un posto vuoto tra un passeggero e l’altro. 

Ci danno dei moduli da riempire, ci scambiamo la penna. Poi intreccio le dita, e mi abbandono sul sedile. 

Fuori dal finestrino, la luce arancio delle sei bagna la pista vuota. E mentre scaldano i motori, chiudo gli occhi per godermi questa attesa, sudata, e momentanea tregua.


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