Al cimitero di Père Lachaise, a Parigi, le tombe creano una città, e i morti che la abitano sono cittadini dell’umanità.
Vai alla ricerca del sepolcro di un musicista e trovi quello di un filosofo. Cerchi il grande scrittore ed ecco che trovi il luogo di riposo di un politico della Rivoluzione. Volevi trovare Chopin e incontri il concittadino Cherubini.
È appunto una città nella città, con le sue vie, le sue piazze, le sue case che spuntano tra l’edera e le ortiche, con i suoi visitatori a caccia di vip tumulati di ogni epoca.

Tutto appare così gotico e decadente, e allo stesso tempo anche pulito, ordinato. Destinato a perdurare. Tutto sembra aver trovato pace, e tutto sembra venire disturbato in continuazione.
Per ottenere la cittadinanza al Père Lachaise si potrebbe pensare di dover essere stati delle celebrità in vita. In realtà, prima di tutto bisogna essere morti. Ma di questo, visitando il cimitero, ci si dimentica presto.
Le persone si fermano a fare le foto alle tombe più famose, viene fornita anche una mappa dettagliatissima che le guida nella ricerca. Si colleziona la visita alle tombe come fossero figurine, non sepolcri, pratica che se accadesse in qualsiasi altro cimitero sarebbe considerata riprovevole.
Ma qui no.

Alcuni dei personaggi famosi sepolti al cimitero del Père Lachaise di Parigi
Mentre cammino tra le vie del cimitero più frequentato al mondo, quello che mi domando suona più o meno così: quanto è radicato nell’uomo il bisogno di godere di una gloria riflessa, la pura vanità di ritrarsi in un selfie accanto alle spoglie di un simile famosissimo (che di certo non potrà evitare lo scatto), cioè un Ego che si mangia tutte le distanze (anche quelle che separano la vita dalla morte), e quanto invece è forte la ricerca di una connessione con chi è altro e se ne sta altrove, anche solo un paio di metri sottoterra?
Mi ha fatto tanta tenerezza vedere sulla lapide di Modigliani un fiore amaranto, e un biglietto del Museo Modigliani di Livorno lasciato sotto un sasso. Anche la tomba di Gobetti, così silenziosa e lontana dalle altre, come fosse esule anche nella morte.
Mi sono soffermato molto tempo al sepolcro dimenticato di Auguste Comte, una tomba, la sua, all’ombra di quella della moglie deificata.
Mi ha fatto sorridere il fatto che l’ideatore del positivismo e il catalizzatore di una consapevolezza moderna che vede nel sistema delle scienze il punto di arrivo dell’umanità abbia questo come ultimo lascito sulla terra: il culto di una donna, una fede che sprofonda addirittura nei remoti culti della Grande Madre.
Quel bisogno viscerale di credere ad una figura protettrice che ci custodisca dal massimo dei pericoli: la morte.


Mentre passeggio ho di questi pensieri. E credo che la risposta si trovi sottoterra, dove riposano le ossa.
Sotto le strade di Parigi si estendono le catacombe. Qui gallerie e pareti sono riempite di tibie e teschi, in un silenzio che definire ‘sepolcrale’ sarebbe riduttivo.
Del pensiero, e dell’uomo, prima si dovrebbero conoscere le ossa. Le ossa sostengono le idee, hanno fatto da basamento per quelle menti che le hanno pensate, le hanno rese strutturate e immortali, capaci di superare il tempo.
È molto più facile ricordare il nome, con la gloria o la miseria che si porta dietro. Più difficile (e deprimente) visualizzare un mucchietto d’ossa annerite.

Azzardo un paragone.
Le catacombe di Parigi raccolgono le masse di ossa mute, ordinate e riposte una sopra l’altra, quei morti indistinguibili di cui la storia non ha ricordo. Il cimitero di Père Lachaise raccoglie la massa dei nomi, i distinti e i distinguibili, e il loro peso è tale da far dimenticare tutto il resto.
La sfida per chi passa da qui è questa: ricordare le ossa sepolte sotto la targa del nome.





