Riccardo Noè – A tear in the dark (reposted from Tsinoshi Bar)

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A Tear in the dark. Una lacrima nel buio. Se cercate qualcosa, l’ultimo album di Riccardo Noè potrebbe valere benissimo come un sostituto elegiaco di un ago in un pagliaio. Ma provate ad ascoltare il solco bagnato che una goccia abbandona lungo il volto. In questo caso che ci sia o meno la luce, non fa differenza: perché non sentirete nulla, ma immaginerete. Così è il primo album di Riccardo Noè, qualcosa che non lascia tracce di sé, ma che non vuol dire che non esista. Qualcosa che non è collocabile in un contesto perché rappresenta un contesto: sono le piccole cose, il vissuto, la propria storia. Un box di affetti. 

La genesi dell’album è lineare nella sua non-linearità: è stato sviluppato nel corso degli anni, in diversi momenti, ed ogni traccia è conforme ad ognuno di essi. 

Ma lasciamo che sia la musica a parlare.

”Intro” dispiega un mantello sidechainato color zafferano, una geekissima litania di monaci-producer tibetani: Teebs seduto nella posizione del loto mentre sogna di essere Burial che sogna Bonobo, in un probabile dissesto cognitivo.

“DKK” decide così di unire in matrimonio un riff di chitarra filtrato, implicito e camaleontico (ma sempre presente) con un tripudio estroverso di spezie quantizzate: ritmiche garage, campanellini, tremori freddi. Auguri e figli Maschi(ne).

“Shadows Forest” è…«dove cazzo sono finito? » Come preannuncia il titolo, la traccia si conferma gravida di suspance e mistero: ammirevoli catabasi verso le frequenze basse e soffocanti sedute di sauna nel sottobosco dei soundscapes simil Lakker riproducono l’effetto della luce che filtra a sprazzi attraverso la Lichtung, la radura della foresta.

“They Comes” attacca con una fill ritmico inzuppato nel riverbero, carica come una fionda le tessere ritmico-armoniche e poi le spara tutte insieme in faccia all’ascoltatore. Una dozzina di giri in chiusura risultano un po’ troppi però….

“Interlude” è una pioggia sintetica, un meeting di circuiti malinconici ,un pianto in sistema binario che ci inonda con micro-rumori e arpeggiatori. Intervalli intensi, la melodia del mallet leggermente laccato, lo string-pad alla M83 sullo sfondo…davvero intensi.

“7-7-1927” ripropone l’atmosfera della prima traccia, ma più rinforzata: una muraglia cinese il suo groove; una sospensione nella sezione centrale la sua breccia. Quando dovrebbe osare, il brano riacquista soltanto un rinforzo di rullante che mantiene in degenza la dinamica.

“Distorted Fields” si apre bella inquietante, storta appunto, e inizia a giocherellare subito con gli accenti spostati del rullo: che figo l’effetto non appena si aggiunge alla festa il kick ciccione! Ecco quella chitarra da Route 66davvero la ciliegina sulla torta.

“Symphonie der Bewegung” impone uno stacco consapevole con quanto sentito prima. Un brano composto a quattro mani per pianoforte ha energia da vendere, ma la potenza del calibro Venti (dita) si scatena solo nel chorus, quando l’accompagnamento a ottavi, più pop-rock che classico, si incastra con l’arpeggio e la linea melodica è libera di spiccare il volo.

“Outro_Rem Saverem” ha un che di mistico, opalescente, naif, concavo e convesso. Una magia limpida che rivela la fine della magia.

Poco all’interno di questo lavoro è convenzionale, a cominciare dalla disposizione delle tracce. Riccardo Noè cerca di creare qualcosa che sia fonte d’ispirazione per il futuro ma che al tempo stesso valga anche come una scommessa per il presente, una sorta di punto di domanda. Eppure il tributo verso le sue fonti è ampiamente pagato: dagli italianissimi Battisti, De André, Mogol, YOUAREHERE fino alle perle dell’elettronica contemporanea, i vari Bonobo, Burial, Caribou, Holden e Moderat. Si sente ancora qua e là qualche sbavatura da correggere, ma per un album d’esordio sono ampiamente scusabili; di contro, emergono anche un paio di tracce che catturano e hanno molto da raccontare. 

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