Traboccante, precipitoso. Barocco. Tragicomico e ovviamente, etilico. Signori e signore questo è “Drunk”, ultimo disco di Stephen Bruner, ovverosia quel felino incantatore del basso a n corde più noto come Thundercat.
Brevissimo preambolo: alfiere della Brainfeeder e pupillo di Flying Lotus, Bruner è diventato una figura di riferimento per la black-music contemporanea, qualcuno con gli attributi che cerca di ridare anima al jazz scardinando le barriere di un genere percepito (ingiustamente) come colto ed elitario. Attraverso la contaminazione con la “spazzatura” dell’esperienza quotidiana e una fitta corrispondenza con quanto c’è di nuovo sulla costa orientale (collabora con Kendrick Lamar in “To Pimp a Butterfly” e Kamasi Washington in “The Epic”), Thundercat è la testimonianza vivente che si può fare della musica leggera una materia reticolare e pulsante. Senza pagare in Riconoscibilità (il debito verso i maestri dei seventiesammonta a svariate pile di dischi) e senza far uscire il talento dalla porta del retro: basta sentire Bruner suonare per capire quanto virtuosismo sprizza da ogni nota, accento, pausa… sempre però con quella voglia di prendersi in giro e di fare il mattacchione, grazie all’ironia e alla dolcezza dei suoi testi. Dunque, allacciate le cinture: comincia il giro di prova sopra le ventitré montagne russe di “Drunk”!
Difficile non tenere a mente il tema-bounce di “Captain Stupido” (affatto a prova di stupido), anche se “Uh Uh” sconquassa le cavità cerebrali con quella fusion malata che tanto aspettavamo: una mitragliata di note che piomba tra capo e collo a velocità letale.
“A Fan’s mail” viene sorprendentemente costruita sul giro cordale di “Something About Us” dei Daft Punk (sentire per credere), anche se più che omaggio potrebbe configurare una parodia (i coretti in sottofondo che fanno –meow, meow, meow, meow- hanno del genio). Il desiderio malinconico di “Lava Lamp” arriva dal profondo delle viscere e non riesce ad essere pronunciato, ma ci pensa “Jethro” a diradare la nebbia con un lucido colpo di reni. Su “Show you the way”, che intreccia un piano elettrico mellifluo agli scambi vocali di Kenny Loggins e Michael McDonald, veniamo catapultati in un dancefloor anni ’70 con tanto di capelli cotonati e mirror ball.
“Walk on by” = un reflusso gastrico ostruito dal flow di Kendrick Lamar. Quindi “Blackkk”, George Duke appena scongelato dall’ibernazione (magari…) e avido di sincopi. “Tokio” è quel contatto reiterato con la plastica colorata dei pulsanti (allusione al knobbing?) e quel tintinnio dei gettoni perduti a Metal Slug: tanta Neo Geo, tante imprecazioni, Capcom e Hiatus Kaiyote (sentirsi “Atari”). “Jameels Space Ride” ricrea un breve momento up, un’oasi nel deserto che si colloca a metà tra un jingle pubblicitario e un feticismo nipponico. “Friend Zone” racconta invece la storia di un palese amore incorrisposto, insomma il solito Eros-e-porte-in-faccia: i toni e le situazioni sono affini alla hit “Oh Sheit, It’s X!” dell’album precedente. “Them Changes” è una ballata (dal testo molto fico) già uscita per l’EP “The Beyond/ Where The Giants Roam”; su “Drink Dat”, Wiz Khalifa versione lounge e un paio di sintetizzatori west-coastpiacevolmente lamentosi reintroducono l’R’n’B da una porta scorrevole. “Inferno” possiede una parte vocale notevole: sembra di toccare il fondo con un sorriso, e quando a linea di basso fa vorticare la stanza, il fade-out chiude facendo calare con delicatezza le palpebre. Nella title-track “Drunk” riemerge quel wurlie inzuppato nel flanger che segnala il collasso imminente, il “The Turn Down” annunciato nientemeno che dalla voce di Pharrel Williams. L’ultima traccia, “DUI”, non sarà la migliore (oddio i suoni sono bellissimi), ma è soprattutto il testo a offrire un compendio dell’album stesso: -Sometimes it’s okay, sometimes it’s the worst thing ever…-
Se c’è una particolarità di “Drunk” da segnalare (ce ne sono molte in realtà) è quella di non possedere un andamento progressivo o regressivo. Non possiede un “centro”, cioè una o più hit intorno a cui ruota tutto il resto. Si ok, ci sono dei pezzi più orecchiabili degli altri, ma l’ordine di ascolto può davvero essere impostato “a salti emotivi”: si possono scegliere le parti più su di tono e baldanzose (“Captain Stupido”, “Bus in These Streets”), come quelle più riflessive e malinconiche (“Rabbot Ho”, “Where I’m Going”, “3AM”). O addirittura quelle visionarie e allucinate (“Day & Night”, “I Am Crazy”). Ma qualunque traccia si scelga (o non si scelga), “Drunk” funziona benissimo: perché qualunque brano ci può dire tutto quanto o assolutamente niente sull’album stesso (tanto da provocare il classico interrogativo accompagnato da grattatina di cranio, “ehi ma dove ho già sentito ‘sta roba?”).
Provare a essere oggettivi con gli artisti che si amano è sempre un grosso problema, però se si cerca un pelo nell’uovo si può trovare, sempre. Qui riguarda il fattore collaborazioni, che non sembra pensato per rendere una specifica traccia più interessante ma semplicemente a richiamare il click sul tasto play. Il disco infatti non vanta altre stelle se non quella di Bruner stesso: è lui e solo lui il protagonista assoluto di “Drunk”, con le sue linee di basso malate e quel falsetto cristallino che buca l’evento sonoro. Eppure c’è chi potrebbero trovare le sue soluzioni eccessivamente pompose o inutilmente saturanti, un ripetere “ci sono Io, ci sono Io, senti quanto sono bravo a suonare”: sì Thundercat o si ama o si odia, e questo ultimo lavoro ne conferma il sospetto. Ma va bene così, perché “Drunk” è un pozzo senza fondo che vi succhierà diverse sessioni di ascolto: potrebbe essere il nulla cosmico, vittoria e resa insieme, il salvaschermo con le serpentine che si espandono all’infinito, la parabola sconclusionata di un session-man in cerca di sé stesso.
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