Tycho – Epoch (reposted from Tsinoshi Bar)

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Un sole sopra una collina bruciata. Una palla di riso che salta dalla ciotola. Uno stendardo di una fazione alleata in un titolo strategico a carenza di pixel. Una circonferenza, un trapezio e un quadrilatero. 

Stiamo parlando di Epoch, l’ultimo LP di Scott Hansen aka Tycho. La vena grafica di Hansen si esplica, oltre che nell’artwork(ancora più minimale rispetto al logo arcinoto di Awake), in tracce estremamente visive, evidenti, legate o legabili a paesaggi dalle linee uniformi e gonfie di un sentimento intelligente. Secondo il producer californiano è la texture sonora a lanciare un messaggio all’ascoltatore, piuttosto che la melodia o il ritmo: ogni brano deve essere allestito come un panorama in cui l’ascoltatore possa affondare un sinestetico sguardo. Il risultato è una pastiche di elettronica sognante, ambient virato garage, down-tempo puntellata e post-rock.

“Glider” crea un evento sonoro piacevolmente artefatto e linearmente spontaneo. La strada dell’ascolto si dispiega quasi per magia: le sequenze scivolano e le componenti armonico-ritmiche si danno il cinque.

“Horizon” monta sagace liberando leggera tutta la sua crema. La fa prendere bene con quei chords un pochetto acid house e con un riff di chitarra tanto riverberato quanto spensierato.

Plana dall’alto “Slack” tra le pale di un suono arpeggiato e sembra come ricercare per tutta la sua durata una propria identità, una direzione da mantenere

“Receiver” lascia spazio ad un botta e risposta tra due mallet, uno più denso, riflessivo che riempie il sottofondo armonico, l’altro più alto, stridente e selvaggio che si lancia in fraseggi cadenzati: una tribù di Inuit a pesca di foche avvolta in un cellophane sonoro. 

La title track “Epoch” è anche la traccia che meglio esemplifica il tono del disco. Elementi semplici, atomici, ma quanti! Vari, ricchi e genuinamente amalgamati. Il brano sembra interrompersi quasi subito…per ripartire quando meno lo si aspetta.

“Division” è giocata tutta su una dicotomia, su una lotta tra una ritmica più svuotata, densa di piattini e ride, e una più cicciona, decisamente garage, nella strofa. Nel chorus, Tycho apre la galleria del vento dei filtri.

“Source”: la semplicità di due riff sovrapposti di chitarra imbevuta nel delay fa da contraltare a una texture ritmica intricata, impegnativa, di qualità.

Tira giù il sipario di “Local” un flanger penetrante. Poi però non si capisce con chiarezza dove la traccia voglia andare a parare, tra nostalgia retrò e un break trip-hop.

“Rings” condensa l’atmosfera sottesa da pomeriggio autunnale con un cielo melenso in un sobborgo di provincia, ma la dirada grazie al vigore delle ritmiche.

Il passaggio di “Continuum” sembra proporsi più come uno stacco, che comincia e si chiude su se stesso, lasciando più o meno tutto da dove era iniziato

“Field” è cullata da un accompagnamento di chitarra (un paio di parole sopra sarebbero state la ciliegina sulla torta) e non si spinge molto oltre, se non in un soundscape che ingoia ogni nota in un buco bianco.

Una serenità piena e distaccata, quasi stoica, è quello che si può raggiungere ascoltando Epoca di Tycho: le trame geometriche del disco sono costruite con potente consapevolezza, vere e proprie linee rette lungo le quali l’ascoltatore non può deviare il proprio percorso, ma soltanto accettarlo, con grande gioia. Si apprezza la presenza costante della chitarra e delle percussioni registrate dal vivo, soluzioni che ingrassano i riferimenti del disco ai suoni più analogici del recente passato e al dialogo/confronto inevitabile con le folate fredde degli strumenti virtuali. Anche dopo i picchi di Dive e Awake, Tycho sa tirare fuori dal cappello qualcosa che non vale certo meno, un lavoro capace di dare tanto un’imprevista conferma ai suoi fan quanto una fresca novità agli iniziati più curiosi.

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